Un antecedente storico alla fototessera è sicuramente l’invenzione della carte de visite da parte di André Disderi nel 1854. Venivano realizzate con apparecchi forniti di 4/8 obiettivi, che permettevano di ottenere sulla stessa lastra più scatti, ad un costo più basso rispetto ai ritratti di più grandi dimensioni. Possiamo definirlo il primo approccio alla fototessera, per il formato, per la velocità di realizzazione e per l’ampia diffusione popolare che ebbe a metà dell’ottocento.

In quegli anni abbiamo diversi campi di applicazione: dall’autoritratto rotante di Nadar, alla prima campagna di catalogazione dei pazzi realizzata su calotipo ad opera di Hugh Welch Diamond, al ritratto generico di un delinquente di Francis Galton fino allo studio fisiognomico di Cesare Lombroso, dove attraverso i tratti del viso vengono associati diversi comportamenti criminali.

Nelle grandi città le cabine per fototessere arrivano verso la fine del 1920, ma alcuni precedenti li troviamo ancora nel secolo precedente: nel 1889 Carquerot & Guillaumont realizzano questo carro fotografico che ti dava una fotografia con 10 pence, nel 1894 Conrad Bernitt inventa il chiosco fotografico Bosco, che realizzava una fotografia in 4 minuti.
La prima cabina per fototessere viene installata a New York nel 1926, due anni più tardi a Pargi ne troveremo ben cinque. Il brevetto è del 1924 di Anatol Marco Josepho.
A Brodway c’era il salone fotografico automatico, con cinque cabine e lo slogan “Fotografati!8 pose in 8 minuti”, questo era il tempo per lo scatto, l’asciugatura ed il taglio.

Questa invenzione portò sicuramente a delle riflessioni sul ruolo dell’uomo all’interno del processo produttivo; la macchina rendeva inutile l’uomo al fine della creazione del prodotto. A livello culturale però la cabina portò ad un interesse da parte degli artisti proprio per la sua meccanicità ed automaticità. Gli artisti se ne appropriarono, a volte per giocare con la loro identità, a volte per mascherarla o per renderla libera.
Venne usata spesso come mezzo di performance, come fuga dalla realtà, come schedatura. René Magritte fu tra i primi ad utilizzarla, in maniera ambigua, incerta, ci entra da solo e fa smorfie, o con la moglie e finge di strozzarla. La macchina viene usata come luogo per recitare e per liberare l’inconscio.
Per i surrealisti l’arrivo della cabina fu una festa, ci entrarono tutti a fotografarsi, con gli occhi chiusi, in quello stato tra realtà e surrealtà che esaltavano nel loro manifesto: Paul Eluard, Yves Tanguy, Max Ernst, Salvador Dalì ed il fondatore del movimento Andrè Breton, che se ne fece a centinaia.
Il Photomaton attirerà l’attenzione di Walker Evans, di Andy Warhol, per il quale rappresenterà la realizzazione di un sogno, quello della riproduzione automatica e meccanica. Utilizzò le fototessere sulle riviste, per realizzare opere su commisione come il ritratto per Ethel Scull, moglie di un magnate, che venne portata da Warhol a Time Square e fatta posare in una cabina per 100 scatti. Ne scelse 36 (come un rullino), le quali vennero fotoserigrafate su tele dipinte e colorate con toni accesi.

Nel 1972 alla Biennale di Venezia Franco Vaccari in una sala esporrà “Esposizione in tempo reale”, una cabina delle fototessere dove il visitatore diviene artista. L’opera conclusiva sarà formata da più di 40.000 strisce, cioè 160.000 pose. Un’opera d’arte collettiva, dove all’artista viene riconosciuta l’idea e non più la realizzazione dell’opera stessa.

Dal 1968 anche Arnulf Rainer cominciò ad entrare nei Photomaton: stava lavorando alla serie Face Farces, all’interno della quale stava studiando i sintomi fisici dei malati di mente. Esplorò la follia, attraverso l’uso di alcool e droghe, e sotto l’effetto di queste sostanze posò davanti all’obiettivo, raggiungendo un alto stato di eccitazione che lo portò a creare delle vere e proprie performance facciali e corporali.

Anche Francis Bacon si rifece alle sue fototessere per studiare la figura umana e le sue trasformazioni, come aiuto per i suoi studi di fisiognomica. Divennero per lui un dizionario da cui attingere per i suoi dipinti.

La fototessera ancora oggi esercita un fascino forte su di noi, perchè ci sentiamo liberi di essere noi stessi al suo interno, non ci censuriamo, proviamo ad essere davvero noi stessi. In contrapposizione la usiamo per schedarci, per dare quell’immagine la più vicina a quella che gli altri vedono, e nella quale ci dobbiamo riconoscere e far riconoscere. Io amo entrare nelle Photomaton, ho dei ricordi bellissimi di Arles e del Lussemburgo. L’ultima volta ci sono entrata con Kiki, era novembre scorso, ed ogni volta è una magia.
